Mi hai rubato il destino!, è questa la frase che il giovane Taka, leone destinato al trono, lancia a Mufasa, il trovatello che ha la stoffa del re, ma non il sangue.
Mufasa – il re leone – è una storia di formazione, certo, ma è una storia che tratta direttamente il tema del destino. E il destino è un tema che riguarda ognuno di noi.
Vediamo in che modo Mufasa ci mette di fronte alle grandi domande legate al destino, al senso, alla necessità di uno scopo ultimo nella vita e a cosa accade quando questo si frantuma, quando le illusioni di un destino immaginato, previsto – l’amore della nostra vita, il posto a cui ambivamo, una malattia, un lutto improvviso – segnano una svolta nella nostra esistenza.
In che modo possiamo farlo?
Interpretando il balletto di eventi, dialoghi e personaggi come un movimento dinamico che ha luogo nella nostra psiche. Dall’esterno all’interno.
Nelle storie il destino è ciò che sta. E la storia di Mufasa, da giovane leone smarrito a sovrano delle Terre del Branco, si sviluppa come un viaggio archetipico e insieme è un processo sistemico che coinvolge l’intera psiche e la comunità.
Tutto ha inizio con l’alluvione, un evento traumatico che separa Mufasa dai suoi genitori e lo getta nell’ignoto. L’acqua, nella sua ambivalenza, rappresenta la “grande madre”, un principio originario che nutre e distrugge al tempo stesso. Come simbolo dell’inconscio collettivo, nelle parole di Eric Neumann, l’acqua è il luogo del caos primordiale, ma anche il terreno fertile per la rinascita. Questo segna una frattura necessaria, un distacco dal grembo protettivo che spinge Mufasa a confrontarsi con le forze dell’inconscio.
Mufasa viene così cresciuto dalla famiglia di Taka, ma in quanto trovatello è relegato a un ruolo marginale, costretto a stare lontano dal gruppo dei maschi e a unirsi alle femmine per andare a caccia. Questa posizione ambigua lo rende un estraneo tra gli altri leoni, incapace di integrarsi completamente, ma al tempo stesso gli offre una prospettiva unica.
Le femmine dei leoni, rispetto ai maschi, rappresentano il fulcro della comunità: sono le cacciatrici, le custodi del branco, e incarnano un archetipo di resilienza e cooperazione. La loro forza non si misura solo nella capacità di procurare cibo, ma anche nella loro coesione sociale e nella protezione reciproca. Mufasa, vivendo tra loro, assorbe valori che lo allontanano dall’idea tradizionale di leadership maschile basata sulla forza.
Grazie a questo ambiente, Mufasa impara a osservare, a collaborare, e sviluppa una capacità empatica che lo distingue dai maschi dominanti. Questo diventerà un tratto fondamentale del suo futuro regno, quando sceglierà di governare non con la paura, ma con l’equilibrio e il rispetto per la comunità. Qui emerge un elemento cruciale del suo percorso: il fiuto.
In natura, il fiuto non è solo una capacità fisica legata all’odorato; è una forma di conoscenza istintiva, un’intuizione radicata nel corpo e nell’anima. Mufasa, costretto a cacciare con le femmine, apprende questa abilità in un contesto di sopravvivenza collettiva e cooperativa. Le leonesse lo guidano a sentire ciò che non si vede, a percepire ciò che è nascosto, sviluppando una sensibilità che trascende i confini dell’istinto animale. Vivendo tra le femmine, che incarnano l’archetipo della Grande Madre, Mufasa entra in contatto con un’intuizione che sfiora l’anima stessa del mondo.
Il fiuto diventa per lui uno strumento simbolico, una forma di dialogo tra il corpo e l’inconscio. È ciò che gli permette di anticipare i pericoli, di riconoscere le opportunità, ma anche di cogliere le emozioni sottili degli altri. È attraverso il fiuto – la sua capacità di riconoscere i fiori che accompagnano il suo odore, di scovare prede distanti decine di metri nella neve – che Sarabi capirà che Mufasa è un individuo eccezionale per la sua capacità di integrare il maschile e il femminile. La dote di ogni re, la dote di ogni leader è di integrare gli opposti.
Il conflitto con Taka, il fratello di Mufasa, rappresenta uno degli snodi fondamentali del racconto. Taka incarna l’ombra, la parte della psiche che raccoglie le qualità rifiutate o represse dall’Io. Quando Taka scopre che Mufasa è destinato a diventare re, il suo senso di identità vacilla. La sua narrazione interna – tu diventerai re –, una narrazione imposta dal padre, più che sentita, che lo definiva come legittimo erede, si sgretola, e l’ombra prende il sopravvento. Questo crollo dell’Io lo spinge al tradimento, un atto che, paradossalmente, diventa necessario per il compiersi del destino di Mufasa.
Il tradimento, come suggerisce von Franz, è spesso uno strumento attraverso cui il destino si realizza. La caduta di Taka non è solo una discesa nell’oscurità, ma una manifestazione del conflitto universale tra l’Io e l’ombra, un conflitto che ogni spettatore può riconoscere come parte integrante del proprio percorso di crescita. E per etimologia la crescita ha a che fare con l’aumentare, con l’integrare nuove forze. La forza dell’ombra, che erompe quando il progetto di vita tenuto in piedi dall’Io crolla, schiaccia Taka e alimenta la sua sete di vendetta.
La mancanza di un’ancora simbolica che lo riconnetta a uno scopo lo condanna a essere sopraffatto dall’ombra. L’assenza di un elemento aggregante non solo intensifica il caos interiore, ma amplifica il conflitto tra le forze istintive e la necessità di un senso superiore. Quando manca un principio organizzante, l’individuo si trova a oscillare tra due reazioni opposte ma complementari: depressione o rabbia.
A un certo punto Taka non ha più un destino, un punto di convergenza, e proietta la sua frustrazione e il proprio dolore su Mufasa. La via della rabbia, pur essendo una forma di sopravvivenza psichica, è distruttiva e incapace di fornire una reale integrazione. La vendetta gli offre un’apparente direzione, ma lo allontana dalla possibilità di elaborare il caos interno.
Queste dinamiche sottolineano come la presenza di un principio simbolico sia fondamentale per l’equilibrio psichico. Senza un simbolo che organizzi l’energia psichica e dia significato al dolore, l’individuo rischia di essere travolto dalle forze dell’inconscio, sia che queste si manifestino come un vuoto paralizzante o come una furia distruttiva. La narrazione mitica, con la sua capacità di creare significato, diventa quindi essenziale per guidare l’Io attraverso le tempeste dell’esistenza, trasformando il caos in crescita. Questa assenza rende evidente come il destino richieda non solo una meta, ma una struttura che dia forma e significato al cammino.
Come scrive Claudio Widmann, il disegno fatale di un’esistenza si dispiega nel tempo: solo una visione d’insieme rende ragione dei singoli accadimenti. Solo nella prospettiva del futuro acquistano significato piccoli eventi che preparano, con largo anticipo, grandi svolte che si realizzano solo molto tempo dopo. E, come dice Schopenhauer, le storie personali non si strutturano con minore precisione di un poema epico ben congegnato.
Quando ha inizio quindi il destino che lega Mufasa e Taka, poi ribattezzato Scar in nome di quella ferita che gli segnerà il volto per sempre? E quanto Scar diventa fattore – involontario, cioè contro la sua volontà – del destino che vuole Mufasa come re?
Da questo punto di vista, le vicende della realtà non differiscono dalle trame del mito, ma le narrazioni mitiche esaltano l’evidenza del rigoroso concatenamento di cause, la vincolante interdipendenza degli sviluppi, dove il presente prepara con singolare lungimiranza il futuro e il passato appare premessa necessaria di ciò che verrà. Telecamere tra destino, mito, piccoli eventi del presente e futuro…
Ne sa qualcosa Edipo, che solo da adulto venne a sapere della profezia che gravava su di lui. Per non fare del male a colui che riteneva suo padre, si allontana da casa, ma proprio in questo modo finisce per compiere il proprio destino.
Il destino, scrive Widmann, è un poema, un epos, in cui ogni dettaglio si incastona, e dove non c’è una trama unitaria evidente: ogni passaggio segue una logica sotterranea e latente, più forte e vincolante di quella manifesta. Gioca con regole proprie, un gioco spesso sconosciuto a chi agisce alla luce del sole.
L’ironia della sorte vuole che tutte le scelte, le decisioni e i tentativi di contrapporsi al destino finiscano per convogliarsi, in maniera organica e coerente, dentro un percorso che pare fissato fin dall’inizio.
Gli Emarginati, il branco di leoni bianchi, rappresentano un’altra sfida cruciale per Mufasa. Incarnano le forze caotiche dell’inconscio collettivo, le pulsioni rifiutate e represse che minacciano l’equilibrio psichico. La battaglia contro di loro non è solo uno scontro fisico, ma una metafora del processo di integrazione. Mufasa non si limita a combattere queste forze, ma cerca di armonizzarle, unendo le parti del sistema psichico – gli animali della savana – sotto una leadership consapevole.
Mufasa riuscirà a sconfiggere la minaccia delle forze incontrollate – gli esclusi dalla possibilità di coscienza – mostrandosi come catalizzatore, come forza aggregante per la varietà degli animali della savana – rappresentazione della varietà e della frammentarietà delle pulsioni interne di ogni individuo. È nel collettivo e grazie al collettivo che l’individuazione si compie e il “re” e la “regina” possono essere riconosciuti.
Come scrive ML von Franz: “Noi non siamo Dio, ma siamo la mangiatoia necessaria perché Dio possa rinascere.” E questo è un tema che è sviluppato anche da Edward Edinger nell’archetipo dell’Apocalisse. La divinità cerca di rinascere nella nostra umanità, non in un singolo individuo, ma nella nostra umanità, in senso collettivo. Per questo la nostra umanità ha necessità di aprirsi per trovare dentro di sé la ricettività – che è propria del femminile – affinché la divinità – il divino in noi – possa rinascere.
È la linea del femminile – il surplus di femminile – a rendere Mufasa un re: la madre, la leonessa che lo accoglie nel branco, Sarabi. Sono le figure di Anima a cui si lega a tenere vivo il contatto con il Sé, a mediare tra conscio e inconscio.
La figura della madre assume un significato trasformativo nel corso della narrazione. Quando Mufasa la ritrova da adulto, si trasforma in una guida simbolica verso la maturità. Questo incontro non è solo una riconciliazione, ma un momento di integrazione: la madre incarna il principio creativo che sostiene la nuova totalità di Mufasa. Come osserva Neumann, “La madre buona ricompare solo a un livello molto più elevato, rivelandosi in maniera nuova, come madre piena di grazia o come Sofia.” La “divinità inconscia”, che si serve della coscienza per manifestarsi, trova qui un esempio tangibile: il ritorno è una riconnessione con il principio originario in una forma nuova e più elevata.
Il destino di Mufasa si realizza attraverso l’ordine che emerge dal caos, mostrando che persino le energie distruttive hanno un ruolo essenziale nel processo di individuazione. Però anche gli alleati sono necessari. Nel corso del suo viaggio, Mufasa non è mai solo. Oltre a Taka, che prima del tradimento lo salva più di una volta – “Il suo destino è stato quello di salvare te”, dice Sarabi –, il mandrillo Rafiki e il bucero Zazu svolgono ruoli fondamentali nel sostenere il suo cammino. Rafiki, con la sua saggezza visionaria, rappresenta il mentore archetipico che connette l’Io a una prospettiva più ampia e ciclica. La sua capacità di vedere oltre il presente simboleggia la fiducia nel destino, anche quando il cammino appare oscuro. Rafiki tiene la rotta, ha la forza della visione, vede oltre. Oltre la linea oscura del progetto destinico, che sostiene il gruppo oltre la fame, oltre la neve, oltre le montagne.
Zazu incarna la funzione operativa della coscienza, che protegge e organizza il percorso verso l’individuazione, coprendo le tracce per respingere l’assalto degli emarginati. La funzione pratica di Zazu garantisce che il sistema psichico rimanga intatto, mentre Rafiki, come simbolo del mentore visionario, suggerisce che il destino non è lineare, ma si rivela attraverso un percorso fatto di scelte, riconoscimenti, azzardi.
La storia di Mufasa si rivela nella catarsi integrativa. La catarsi è un momento di rilascio emotivo, che, fin dalla tragedia greca, stimola lo spettatore a liberare paura e pietà. Il processo individuativo richiede progressive riorganizzazioni delle forze psichiche in un nuovo equilibrio, per trasformare il caos in una forza creativa e rigeneratrice.
Il destino di Mufasa si realizza dunque come un progetto sistemico in cui ogni parte della psiche trova il suo posto. La leadership di Mufasa non è solo una conquista esterna, ma una dimostrazione di equilibrio interiore, una qualità che si riflette anche nell’esperienza dello spettatore.
Bisogna fare un vero corpo a corpo con l’ombra e questo è l’unico modo per offrire qualcosa di positivo al mondo. Qui risiede la forza del mito: trasformare la confusione in chiarezza, il conflitto in armonia e il caos in destino. L’atto stesso del narrare è un atto integrativo, un punto di convergenza e organizzazione: la vera forza nasce dall’accettazione delle ombre e dalla creazione di un’armonia tra le forze della psiche.
ML von Franz sostiene che quando un individuo non è conscio delle proprie contraddizioni interiori, il mondo diventa l’arena del conflitto e viene spaccato in due parti in opposizione fra di loro. Il modo migliore, forse l’unico modo per affrontare la conflittualità, è partire dalle proprie contraddizioni interiori. Fra la luce e l’ombra dentro di noi, fra l’ordine e il disordine nelle nostre personalità.
Filippo Losito
Filos, psiche e storie
Per consulenze psicologiche e narrative: filippolosito.it – storycounseling.it
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