HERE, Il Tempo come Esperienza dell’Anima

Here di Robert Zemeckis è un crossover tra media e formati, dal fumetto al cinema. Un’operazione in cui lo spazio si contrae e il tempo si distende, abbracciando i cicli archetipici, ripetuti e universali dell’esperienza umana. Il film nasce dall’omonima graphic novel di Richard McGuire, un esperimento narrativo in cui la stessa stanza diventa lo scenario di un viaggio che attraversa secoli di esistenze.

Zemeckis riprende quest’idea e la trasforma in un’esperienza cinematografica radicale: la telecamera resta fissa, lo spazio si cristallizza, è un salotto nell’epoca moderna in cui si susseguono le vite di varie famiglie, un tempo palude nel paleolitico, villaggio indiano, avamposto difensivo… Il film attraversa epoche, vite, ricordi che si sovrappongono come tracce di passi sulla terra battuta. Siamo davanti a un viaggio senza movimento, un’immersione nel cuore del tempo, che non si misura, si percepisce.

Cosa trattiene noi spettatori davanti allo schermo? Non la trama, perché non c’è trama unitaria. Non i personaggi, perché il personaggio si dissolvono dentro il paesaggio senza logica di causa ed effetto. Ciò che aggancia è il sentire, il riconoscersi nei frammenti di un tempo che non appartiene allo schermo, ma alla nostra stessa memoria. La storia che vediamo non è solo quella che accade sulla scena, è la rinarrazione della nostra stessa storia, che stimola il potere creativo della memoria, che, non dimentichiamolo, è essa stessa madre del fare arte.

Here bypassa la connessione con il personaggio quale mediatore di emozioni e di senso e diventa il tempo oggetto di trattazione attraverso i personaggi. In queste andate e ritorni del tempo la memoria riconosce le proprie meccaniche. Noi non viviamo il tempo in sequenza, ma per stratificazioni.

Il passato non è dietro, è dentro. Il futuro non è davanti, è una tensione che ci percorre nel presente. Siamo fatti di schegge di vita che si riaccendono all’improvviso, di risonanze che emergono dagli oggetti, da un nastro trovato tra le pieghe di un divano, dalle foto che testimoniano l’esserci ancora e il non esserci più, dagli alberi dei Natali, dai volti che si animano di rughe da un gatto che passa, da un picchio che è lì da sempre, fuori dalla finestra.

Ogni storia è un contenitore di tempo psichico. Il tempo che attraversiamo è un tempo che ci abita, che si fa in noi, che diventa tempo grazie a noi.  E ogni spazio è un teatro di eventi archetipici, che ci connettono con la dimensione verticale dell’esperienza, un’organizzazione rituale e ciclica dell’esistenza, che lega ciò che è con ciò che è sempre stato e con ciò che sarà.

Here ci ricorda che il tempo e lo spazio definiscono un campo del fare anima – per il fare anima.  L’incontro, la nascita, la separazione, la malattia, la morte, l’inaspettato: non sono eventi, ma repertorio in cui la vita si cuce, si fa tessitura e il tempo prende forma dentro di noi nella relazione con gli altri.

Cosa ci lega alle altre persone, agli affetti più cari? Le ore trascorse insieme? I gesti quotidiani? Quegli istanti che sigillano la sacralità dell’ordinario, la trascendenza del banale?

Il film lavora su questo livello: ci mostra che il tempo non è un flusso, ma è un ritmo, composto di pieni e vuoti, di attese e ritorni, e scandito dagli eventi del destino, che sono universali e comuni a tutti gli esseri umani. Non sono gli eventi a creare la memoria, ma l’intensità con cui la memoria si fa attraverso gli sguardi, le assenze, i dettagli, le crepe poi sempre più grandi che diventano il tessuto di una vita.

Here spezza il tempo, lo segmenta, ne interrompe la continuità. E in questo lavoro di ellissi, nello spazio bianco tra le scene, ci chiede di colmare i vuoti con la nostra stessa percezione. 

Da quali eventi siamo usciti? Come ne siamo usciti? Quali eventi ci attendono? Quando accadranno? Chi ci assisterà? Chi assisterà…?

Hillman direbbe che il viaggio vero è il confronto con il destino, con ciò che ci chiama senza che possiamo sfuggirgli. E Here racconta che non c’è via di fuga dal tempo, ma la possibilità di leggerne i segni, intuire le premonizioni, sfidare l’inerzia della sorte.

Come sempre nelle narrazioni, non è più il viaggio del personaggio. È il nostro viaggio. È il nostro sapere archetipico a fare la storia, il nostro modo di dare senso alle soglie narrative secondo schemi antichi, connettendoci – per lo spazio di due ore, nel tempo di una poltrona – al respiro della psiche.

Filippo Losito, 11 Febbraio 2025.

Categorie: Riflessioni