Storie di rivelazioni e personaggi che (non) vedono il divino.
Di Camilla Sguazzotti.
È lo sguardo dell’occhio, a vedere davvero?
Concentrarsi sul dettaglio, scrutare l’immagine con perizia non garantisce una vera conoscenza. Resta la sensazione di aver lasciato da parte qualcosa, di essere rimasti comunque in superficie, avere contezza del particolare ignorando la struttura nel suo complesso.
«Non vedere corrisponde a vedere». E vedere, quindi, a cosa corrisponde?
La realtà ci arriva sempre filtrata e personalizzata, l’oggettivo assoluto non esiste e la lente con cui catturiamo le immagini del fuori è inevitabilmente selettiva. L’arroganza che viene dal privilegio della vista porta con sé la convinzione che a un’analitica indagine del visibile conseguirà una rappresentazione chiara, completa e fedele di quello che ci circonda. Si pensa di poter trovare ogni risposta nel tangibile, si relega la dimensione del mistico a credenza popolare, quasi superstizione, e appuntandosi su una porzione minima di possibile ci si convince di aver trovato tutte, ma proprio tutte le risposte.
Eppure resta l’insoddisfazione, continuiamo a cercare, a osservare con più attenzione; imbracciamo norme e dogmi come lenti di ingrandimento per spogliare di ogni indefinitezza il reale per poi realizzare che sfugge sempre qualcosa, una parte resta sempre esclusa anche se è lì, «nascosta in piena vista» citando Niccolò Contessa.
Il protagonista di Cattedrale di Raymond Carver impara a vedere davvero solo grazie alla mediazione di Robert, l’amico cieco della moglie che guida la sua mano sul foglio di carta. Il profilo della cattedrale nasce senza l’ausilio della vista, stilla dalla matita come grazia ricevuta e si delinea perfetta all’occhio della fede. Il protagonista non crede, lo dichiara apertamente, eppure affida la sua capacità di vedere al cieco, sacerdote di una forza invisibile solo alla retina: finestre, contrafforti, archi, persone sono reali più del vero solo nel buio delle palpebre serrate. Non serve constatare che anche nel livello in cui si trascorre il tempo in veglia l’opera finale esista o sia pari in grandezza perché vista e non vista ora si sovrappongono e si compenetrano: quello che non viene visto nel reale è visibile all’occhio chiuso e viceversa.
La doppia vista unificata di Carver può ricordare le nebbie magiche di Luigi Ghirri nello scatto Autostrada Bologna-Ancona km 6.5 (1986) che fa ora -non a caso- da copertina al Castello dei destini incrociati di Italo Calvino per gli Oscar Mondadori; e ancora in Condizioni di luce sulla via Emilia, racconto di Gianni Celati in Quattro novelle sulle apparenze (1987), la «luce scoppiata in disfazione», una sensazione di tremore e indefinitezza costante che impedisce al dipintore di insegne Emanuele Menini di vedere in modo chiaro la pianura e la strada. Più si guarda il reale così come lo vede l’occhio, più sembrerà confuso e incompleto, perché di fatti lo è, e si sta cercando nel “posto” sbagliato.
Anche Parker nel racconto di Flannery O’Connor La schiena di Parker cerca risposte invisibili nel visibile.
Questa volta è il suo corpo a diventare campo di indagine: ogni tatuaggio che Parker colleziona dovrebbe penetrare nella sua anima, puntellare il suo carattere e adornare la sua identità…ma Parker sa davvero chi vuole essere se ogni tatuaggio aumentava la sua insoddisfazione?
Questa volta la mediazione è meno gentile, e la sacerdotessa di Parker è una moglie dura e intransigente che condanna la pelle del marito e resta ancorata ad una religiosità incartapecorita; ciononostante il mistero si palesa proprio sotto forma di cespuglio infuocato come da richiamo biblico (anche se in questo caso si tratta di un albero incendiato da un trattore in fiamme) e da una salvezza che prende posto dove non si vede. La schiena di Parker, vergine di inchiostro perché lontana dalla vista, ospiterà l’effige di un Cristo bizantino che il protagonista decide, dopo una notte di visioni allucinate, di non guardare, come a preservarne la funzione di raffigurazione tangibile dell’intangibile. L’infrazione di quella separazione tra lo sguardo del reale e lo sguardo del mistero condanna Parker all’incomprensione: Dio ha la faccia, ha quindi uno sguardo che può penetrare nel reale e mostrare quello che c’è oltre, un oltre a cui non sempre si è prearati.
Lo sguardo disegnato ma più vero del vero di Cristo che riverbera negli occhi di Parker è come lo sguardo di Atena che condanna alla cecità Tiresia per averla vista nuda. Anche l’indovino vede oltre, vede “di più”, ma per farlo deve rinunciare alla vista degli occhi perché non si può vedere il divino e uscirne indenni: la cecità è l’unico compromesso per andare oltre la patina del reale e vaticinare come dei.
A Tiresia è legato a doppio filo anche Edipo, altro personaggio della tragicità greca i cui occhi non reggono la concomitanza di sguardo dell’occhio, che accetta la realtà costruita e parziale, e sguardo del divino che mostra la realtà scevra da impalcature: il reale così com’è, a cui Edipo arriva grazie a Tiresia, è tanto insostenibile da suscitare la necessità di una tutela fisica. Il re di Tebe si acceca per relegare al mondo del tangibile l’incesto materno e sottrarsi dalle lacerazioni che il vero-vero infiltrandosi nel reale ha provocato.
Come Edipo, Parker era stato in qualche modo ingannato dal suo sguardo, convinto che la pelle incisa e visibile fosse lo strumento per essere ciò che voleva ma che non era. Mentre la sua schiena, la parte non vista, diventa terra di mistero, gli occhi del Cristo bizantino porte aperte su una verità, un altrove che non va scrutato ma avvicinato a occhi chiusi.
Il modo di guardare il mondo di questi personaggi, e in modo analogo il nostro, ricorda la serie fotografica Atlante di Luigi Ghirri, composta di ingrandimenti di una carta geografica: un cammello, una serie di palme, dei rettangoli di colore diverso…presi singolarmente potrebbero essere istantanee di un viaggio, ma la loro vera collocazione, la vista intera in cui vanno ascritti non è visibile, è sottesa e nascosta, misteriosa, appunto, come la verità.