Istruzioni per non rimanere in panne. 

Di Daniela Mangini.  

Qualche giorno fa mi sono fermata davanti a una vetrina di libri antichi. Vicino a un piccolo manuale di Tatuaggi e Chiromanzia c’era un altro grazioso libricino edito da Hoepli dal titolo “Chauffeur di sé stessi”. Bingo, ho pensato. Un manuale di autocoscienza indirizzato agli uomini di inizio secolo. Ero proprio convinta che tra quelle pagine avrei ritrovato il mito della carrozza di Gurdjeff (attinta da quella dell’auriga di Platone) raccontataci da Nerella Petrini durante la sua lezione su Battiato.  Coincidenze significative (sì, sì, sono convinta), un po’ come quando ho trovato a cinquanta centesimi un insospettabile esercizio narrativo dello psichiatra Raffaele Morelli dal titolo “Lo psichiatra e l’alchimista”, proprio il giorno in cui facevo ricerca su quei temi. Il pensiero divaga, prende strade tirato da cavalli al galoppo, che inseguono immagini, anche quelle un po’ confuse, che vengono da chissà dove e tirano il corpo e la mente nell’imprevisto: nel mio caso davanti a una vetrina e poi dentro a chiedere di sfogliare quel libro. Mentre il mio corpo sentiva il tempo tra le mani, la mia mente è tornata al posto di comando: tra le parole e i disegni si rivelava una didattica dello chauffeur più prosaica, fatta di bulloni e valvole, carburatori e spinterogeni. L’uomo alla guida di una decappottabile non era una metafora di autocoscienza, ma proprio quello che rappresentava: un uomo alla guida di un’automobile che vuole avere padronanza del mezzo meccanico, dello strumento utilitario che, quando ancora l’autore non aveva deciso di illuminare la strada dei suoi lettori, era quel complicato e sbuffante ordegno i cui misteri non potevano essere conosciuti dal profano. 

L’uomo seduto alla guida del suo mezzo meccanico vuole dominare i cavalli del motore e tenere quella carrozza di lamiera nella direzione ritenuta opportuna, sia che abbia una meta, sia che di chilometro in chilometro decida la strada da prendere, convinto magari da un nuovo paesaggio. Quell’uomo sulla copertina bianca, con lodevole spirito sportivo, vuole però conoscere bene lo strumento che utilizza per viaggiare, perché sa che solo prendendosene cura potrà viaggiare a lungo e nella direzione scelta.

Sto di nuovo per inciampare tra le metafore, così mi torna alla mente Lo zen e l’arte della motocicletta di Robert M. Pirsig, Sulla strada di Kerouac, mi torna in mente che non li ho mai letti, eppure, forse, dovrei, anche se di motociclette, automobili, barche non mi interessa proprio nulla. Per entrare in una metafora dovrei avere un minimo di confidenza con l’oggetto quotidiano usato come alibi; per cadere nel divertente scivolo del Nous (la ricerca del senso), dovrei essere convinta da qualcosa che ha a che fare con la mia Ananke (necessità), con gli oggetti che manipolo nella quotidianità per zittire la mente e fargli ascoltare quella che Battiato chiamava “la voce del padrone”.

Forse oggi quel dedicarci alla precisione del dettaglio senza sentire lo sforzo di quella presenza fisica dell’attenzione, la chiamiamo mindfulness, o essere nel flusso. Abbiamo una macchina biologica fatta di corpo, eros ed emozioni che non va tenuta ferma, non va spinta continuamente in gare di corsa, ma va utilizzata con sapiente intenzione. Quell’intenzione è una scintilla numinosa che ci accende le idee e poi le azioni e che si forma da una materia ignota che ci portiamo dietro dalla nascita, quella materia invisibile come il vento che però ci agita e ci anima, ci fa sentire vivi perché forse ci ha reso vivi, ci fa sentire liberi perché ci tiene liberi. Sarà lo stesso vento che vuole sentire lo chauffeur di sè stesso quando abbassa il tettuccio per prendere la corsa? Saranno le stesse scintille che il conducente esperto di meccanica crea dal nulla per far ripartire il motore? Siamo dotati di una macchina biologica (sia essa immaginata come carrozza o automobile) che ha bisogno di un passeggero, che sappia dove andare, pur cambiando spesso strada, perché ormai lo sappiamo che la meta è il viaggio, l’unica cosa che possiamo razionalizzare e raccontare. Possiamo dare il volante e le redini alla mente, ma senza direzione buttiamo via carburante o fatica animale.  Meglio essere chauffeur di noi stessi, integrare nel conducente quella voce padrona che sceglie la strada e approdare a una guida fidata e sicura, che s’addentra e s’indugia nella spiegazione di tutti gli organi dell’automobile, illustrandone l’intimo assetto. Le metafore sono un diabolico espediente per far inciampare la mente verso il daimon (cioè quello che lo scrittore W.B.Yeats chiama il sé ultimo, il sé sepolto dell’uomo) e fargli dare una facciata fuori dalla logica proprio mentre pensiamo di padroneggiare meglio gli oggetti del quotidiano. Le metafore devono però poi essere messe in pratica con olio di gomito, disciplina e precisione. Le figure disegnate dall’immaginazione devono scendere nel mondo dell’azione. C’è a volte un percorso inverso: dalle mani sporche di grasso alla penna dal tratto sottile. È il tragitto che ogni tanto, sembra prendere l’autore del manuale, il Dott. G. Pedretti, maestro di meccanica e di stile. Leggo la prefazione “Ognuno può oggi ottenere la licenza governativa per condurre automobili; la non difficile patente si ottiene dopo aver frequentato i corsi, accellerati o no, di una qualsiasi Scuola di Chauffeur. Per diventare un gentleman chauffeur nel vero senso della parola occorre, tuttavia, di più: occorre innanzi tutto un po’ di affetto per la macchina che vi è affidata ed alla quale affidate, in corsa, la vostra stessa esistenza.” Chapeau. Esco dal negozio senza aver comprato nulla, mi volto di nuovo e tengo nel mio sguardo l’immagine di un gentlemen chauffeur capitato sul ciglio delle strade che s’intrecciano su ogni palmo della mano, tra monti di venere e monti della luna e col pensiero gli auguro buon viaggio.

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