L’accettazione della sofferenza come chiave di accesso alla consapevolezza.

Di Camilla Sguazzotti. 

Abbiamo bisogno di vedere il dolore, di dargli una consistenza, che sia quella liquida delle lacrime salmastre o quella vellutata dei fazzoletti inumiditi. Dobbiamo sentirlo da lontano, volerci coprire le orecchie per il fastidio, stringere le mani finché tutto non si riduce a un sibilo sordo.

Abbiamo bisogno di riti, gestualità ripetute per emulazione e formule da recitare sottovoce; ci sono tappe da seguire per fare pace con la fine, se qualcuna salta, la cerimonia è incompleta, se la rappresentazione non è accessibile al pubblico, perde di validità.

Perché la sofferenza ha bisogno di un palcoscenico? Per quale ragione sentiamo la necessità di condividere l’esperienza del lutto, farne un momento di ritrovo?

La ritualizzazione e la condivisione della morte compaiono come elemento caratteristico delle celebrazioni di commiato dall’antichità, tanto da assumere la dimensione di banchetto, agone, occasione di festa; ma la spettacolarizzazione della sofferenza provocata da un lutto assume anche la forma di un’estremizzazione del compianto, una trasposizione pubblica del dolore privato e individuale. La civiltà greca si serviva di una vera e propria rappresentazione performativa, la tragedia, uno strumento di catarsi, ovvero di purificazione, liberazione dello spettatore da influssi nocivi mediante la performance attoriale. Il dolore che prende forma nella tragicità greca è legato per lo più alla morte, mai rappresentata in scena ma sempre solo raccontata, o tuttalpiù testimoniata dalla presenza del cadavere.

Nella liturgia cattolica l’assente è protagonista del rito; il funerale, che dovrebbe essere funzionale a confermare l’avvenuto passaggio del defunto alla vita ultraterrena, sembra con il tempo aver spostato sempre più il focus su chi resta e sulla necessità di trovare strumenti per sopportare il dolore e accettare l’assenza. Gestualità, formule consuetudini sono diventate la griglia d’esecuzione di un rito preconfezionato che non consente comportamenti e reazioni esorbitanti da quella assimilata come la “norma”, il corretto comportamento e l’adesione al codice non scritto. Anche i funerali hanno assunto i caratteri di rappresentazioni, pièce in cui i partecipanti sono chiamati a svolgere la funzione di spettatori ma con una posizione rovesciata rispetto a quella della tragedia: invece che essere liberati dal dolore i partecipanti vengono chiamati a farsene carico. Attraverso una sorta di parcellizzazione dell’evento doloroso il lutto viene distribuito sugli spettatori della cerimonia che si trovano a diventare esecutori involontari di una spettacolarizzazione del dolore. A tal proposito è interessante l’esistenza di figure come le prefiche, mutuate dalla tradizione greca, entrate nella cultura di alcune aree soprattutto del sud Italia e ancora oggi marginalmente presenti. Dedicate ad una drammatizzazione della sofferenza nel corso delle cerimonie funebri, queste donne vestite di abiti neri si battono il petto piangendo e innalzando lamenti: svolgono una funzione pubblica, un servizio al defunto e alla comunità che possono delegare a queste figure l’assolvimento di un dovere e la conservazione, in qualche modo, del ricordo tanto di una singola morte quanto di eventi dolorosi per l’intera comunità.

Ma perché tanta risonanza per la morte altrui? Il dolore che cerchiamo con ogni mezzo di ammaestrare è davvero quello per una morte ormai irreversibile di una persona cara, o è piuttosto il dolore per l’impossibilità di comprendere, per la paura di non avere risposte?

Le tradizioni, la cultura, la storia e le religioni ci hanno dato degli strumenti per ipotizzare cosa sia, su più livelli, la morte…abbiamo imparato a parlarne, a raffigurarla tanto da rendere anche le sue versioni più bieche del tutto sdoganate, ma della nostra, di mortalità, siamo consapevoli?

"Il letto di morte", Edvard Munch, 1895.

Gurdjieff in I racconti di Belzebù a suo nipote chiarisce che l’uomo non è in grado di immaginare la propria morte, di metterla in scena, mentre può tranquillamente immaginare quella degli altri senza turbamento; è una modalità di rappresentazione che ricorda quella della tragedia greca, in cui è sempre la morte di un altro, uno dei personaggi, spesso il/la protagonista, ad arrivare in differita sulla scena. La raffigurazione della morte non compare, viene annunciata, ne vengono spiegate le modalità e i motivi, ma è lo spettatore che deve immaginare, rappresentare mentalmente l’azione che pone fine alla vita. È allora, forse, in quel meccanismo figurativo che chi assiste può consciamente o meno inserire la propria persona, mettersi (involontariamente) nei panni del personaggio ucciso o che si uccide e realizzare, per interposta persona, la propria morte.

Ma gli strumenti della tragedia e la teatralità in generale, compresa quella del rito funebre, hanno insito il concetto di identificazione, rispetto al quale Gurdjieff mette in guardia: affidare a un altro la simulazione della propria morte, così come piangere un altro per non dover piangere se stessi sembra una delle conseguenze del processo di identificazione. L’uomo è spinto a comportarsi in modo conforme a quello che gli altri pensano di lui, restando, di fatto, schiavo delle contingenze e di schemi prestrutturati, sospettoso e in angoscia perché sempre pronto a essere sottoposto a giudizio, suscettibile ad ogni parametro della realtà che percepisce come indirizzato specificatamente a lui, tanto che «le persone sono capaci di considerare il clima, il calore, il freddo, la neve, la pioggia; possono infuriarsi e indignarsi per il cattivo tempo» come si legge in Frammenti di un insegnamento sconosciuto dell’allievo Ouspensky.

Se la soluzione offerta da Gurdjieff è quindi la presenza, un risveglio da una condizione di inconsapevolezza e automatismo ecco che forse questa necessità di rendere il congedo dalla morte una mise en scene, un rito consolatorio e ripetuto diviene strumento di difesa dal timore di abbandonare il conosciuto (o presunto tale), la vita organizzata a strutture consolidate e gesti ritualizzati. Diamo un palcoscenico al dolore per poter restare nascosti dietro le quinte, suggerire le battute tenendo in mano il copione: ma vogliamo davvero essere i suggeritori della nostra vita, o ambiamo a occupare il palco?

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