Come le fiabe influenzano il nostro stare nel mondo.
Di Camilla Sguazzotti.
Mi è stato chiesto di pensare a una fiaba della mia infanzia: «il drago timido!».
Ritrovavo un po’ me stessa nella storia di questo piccolo drago spaventato da tutto, anche dall’idea di non fare paura tanto da temere di non riuscire a superare l’implicito rito di iniziazione per entrare nella comunità dei suoi simili. Il drago non vuole rapire una principessa, non osa affrontare un cavaliere e la risoluzione è una bugia a fin di bene che fa contenti tutti: il cavaliere torna al castello con la principessa, e il drago nella sua terra con spada e corona; nessuno saprà mai che c’è stato un tacito accordo tra i tre, il “felici e contenti” è garantito da ambo le parti.
Così per i miei primi quattro anni quando mamma, per esercitare il mio libero arbitrio, mi chiedeva quale storia preferissi leggere prima della buonanotte, ho risposto sempre allo stesso modo…ripensandoci comprendo il suo sollievo quando allungai la manina verso il titolo “Fiabe russe”. Nella libreria di casa c’era la versione francese di Térouane, più morbida e adeguatamente infantile dalle originali Skazki della steppa, ma non abbastanza da evitare la sensazione di aver fatto un salto giù a una rupe.
La mia fiaba era senza cattivi, che cosa stava succedendo? Stavo scoprendo tardi che esistevano principesse che rischiavano davvero la vita, streghe che volevano mangiare sul serio i bambini persi nei boschi, e personaggi buoni che si vendicano di chi ha fatto loro del male.
Nella storia del mio drago l’unica paura era quella del goffo rettile che, come ogni timido che si rispetti arrossiva per un nonnulla, era deriso dai suoi simili e si sentiva escluso dal gruppo. In quella fiaba ritrovavo un atteggiamento che con gli anni ho fatto meno mio, ma che in quel momento mi portava ad accostarmi se non identificarmi con il piccolo drago; le vicende della principessa Vassilissa, sorta di Cenerentola dell’estremo est, e della sua bambola incantata erano invece angosciose, e mi obbligavano a un’attenzione vigile e tormentata.
L’impatto con la fiaba nella sua forma tradizionale ha fatto saltare il meccanismo di dissimulazione che di norma la rende digeribile ad una bambina: la mia fiaba era piena di additivi, Vassilissa era senza zuccheri aggiunti.
Mia madre impiegò svariate sere a terminare il racconto: c’era molto testo, meno immagini, e più domande. Con interrogativi puntuali e frequenti cercavo di ripristinare quel dispositivo di razionalizzazione che la fiaba porta per costituzione in dote, ma che era per me ancora troppo sottile: sentivo sotto le immagini semplici e i disegni che ricordavano le tinte sbiadite di un arazzo la superficie ruvida della realtà.
Se già nella versione occidentale il velo fiabesco era lacerato dalla violenza con cui la sorella di Cenerentola si taglia un dito per calzare la scarpa, nella veste russa Vassilissa incenerisce la matrigna e le sorellastre sfruttatrici: lo scarto tra realtà cruda e fiaba edulcorata si assottiglia, la razionalizzazione fatica ad agire e si deve di necessità ricorrere alla magia.
Una magia che rompe l’ambientazione realistica e ricorda di essere dentro a una finzione, a un mondo costruito per funzionare fuori dalle leggi della ragione ma alla ragione fare appello per risultare comprensibile. La bambola benedetta di Vassilissa, il regalo che la madre le consegna in punto di morte e che le permette di far fronte ai soprusi della famiglia adottiva, è si un elemento incantato e prodigioso, ma è primariamente un’incarnazione, la materializzazione dello spirito materno che promette di portare aiuto in absentia grazie all’impiego di un medium.
Crescendo ho smesso di avere paura di Vassilissa, della foresta in cui le sorellastre la mandano e della strega Baba Jaga che la risparmia grazie all’aiuto della bambola, quindi, per traslato, per la sua forza di volontà. Ho cominciato ad apprezzare il portato simbolico di queste fiabe, le ho rilette, confrontate con quelle della tradizione italiana ritrovando i temi comuni al serbatoio culturale umano e le peculiarità di ogni popolo. Ma mi sono anche domandata per quale motivo la prima fiaba che mi è venuta in mente non è la principessa Vassilissa, né la Cenerentola di Perrault o quella seicentesca di Giambattista Basile, ma Il drago timido. Nella storia del draghetto non ci sono veri antagonisti, ma nemmeno eroi e oggetti magico-simbolici; c’è un drago, certo, ma il lettore, che sia una bambina introversa o un genitore paziente che legge ad alta voce, lo ha già accettato nel tacito accordo con l’autrice. Se Vassilissa per fronteggiare il dolore della morte e della discriminazione porta con sé il simulacro dell’assenza e della forza materna, che cosa porta con sé il drago per compensare la sua solitudine?
Sé stesso, semplicemente se stesso. Il drago è causa e soluzione della sua sofferenza, così come il lascito materno è la soluzione alla sofferenza di Vassilissa: entrambi devono trovare un modo per resistere e vincere in una società a cui sono estranei, che li marginalizza e cerca di spingerli fuori dai bordi.
Nel caso del drago un medium c’è, ma si materializza in media res: l’uscita dai propri schemi è sufficiente per ottenere i simboli che incasellano il protagonista nello schema della società; ma come le azioni svolte dalla bambola al posto di Vassilissa, quei simboli sono un inganno, una falla nel sistema stesso della società. Il drago timido torna nella sua terra e ottiene il favore dei suoi simili, ma non ha mai davvero sconfitto il principe né mangiato la principessa dei quali mostra spada e corona: la vittoria è doppia. Il drago ottiene quello che vuole, ma dimostra anche che esistono strade alternative per arrivarvi; resta nel meccanismo smontandolo dall’interno.
Ecco, dopo anni ho capito perché penso alla fiaba del Drago timido, perché, in fondo, è la fiaba che vorrei vivere io.