Di Daniela Mangini.
Tra le righe dei testi c’è qualcosa di ipnotico che ci costringe a trascendere. Vorremmo liberarcene ma è quello spazio sacro che libera noi.
Abbiamo cercato di liberarcene in ogni modo, dissacrando quegli altarini che occupavano troppo lo spazio del pensiero e dell’azione possibile. Ci è sembrato che la colpa della nostra incapacità di convivere tra esseri umani e tra specie derivasse da un concetto di sacro che ci chiudeva nella gabbia dei “si deve” ed “è giusto così”; così il dissacrare è stato un atto per respirare, per trovare nuovo spazio e allargare le nostre possibilità. Un movimento naturale al ricambio di valori, con una distruzione di narrazioni a volte, purtroppo, già seguita da nuove torri narrative, inattaccabili e inaccessibili ai non credenti. Testi sacri, ritualità, comunità di credenti sono però, per Armando Buonaiuto, direttore di Torino Spiritualità, zavorre, ma zavorre buone, quando ci aiutano a radicarci e tenerci in tensione tra quello che siamo e ciò che ci trascende. Anche la letteratura è un’ottima zavorra, un sacro che spesso rinuncia a piani di potere: lo scrittore scrive per sé, per l’istinto a far vibrare quella corda tesa tra sé e l’infinito, l’ignoto, il mistero. Lo scrittore ha quasi sempre uno spiccato lato spirituale, in quanto persona anfibia che vive tra due sfere: essere nel mondo, non essere del mondo, un po’ come dire essere nella realtà ma saper frequentare quel che non ha ancora nome.

C’è un’estetica della parola che è anche etica, un’energia che attraversando il foglio attraversa più e più volte il tempo e lo spazio, facendo emergere legami invisibili tra ciò che esisteva, che ancora esiste e che potrebbe esistere. Mi piace la definizione del legame tra etica ed estetica che dà lo scrittore e cibernetico, teorico dell’informazione, Giuseppe O. Longo, che scrive in un suo articolo:
L’estetica è la percezione soggettiva (ma condivisa) del nostro legame con l’ambiente, legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica. L’etica è la capacità, soggettiva e intersoggettiva, di concepire e compiere azioni capaci di mantenere sano ed equilibrato il legame con l’ambiente.
Siamo nodi che tengono insieme l’universo: l’errore è a volte credere di essere l’unico universo. Se dentro di noi, attraverso il senso del sacro, sperimentiamo il divino, ci dimentichiamo di non essere degli eletti, ma dei temporanei interpreti di un’energia che ci avvolge, di cui siamo parte e che a volte, spesso attraverso le ferite, ci inonda, espandendoci.

C’è una letteratura, ci ha raccontato Buonaiuto nella sua lezione “Dall’orlo della pagina”, che è capace di far pulsare il divino in situazioni molto ordinarie. Mi è allora venuta in mente una descrizione dell’estasi di Silvia Ronchey, che nel suo articolo Il desiderio di Dio parla di un rapimento, una sospensione in cui si dispiegano inspiegabili visioni, una luce infusa che raggiunge “con la velocità con cui il proiettile esce dall’archibugio quando gli si dà fuoco” ed è allora che si alza un volo interiore “che pur non producendo rumore provoca un movimento così evidente da non poter essere scambiato per illusione”.
La buona letteratura non ti illude, ti colpisce e ti sposta, ti porta in ek-stasis ( in greco “fuoriuscito”) attraverso la descrizione esatta di dettagli e eventi riconoscibili, ma resi carichi di un misterioso magnetismo. Tutta la struttura narrativa, il ciclo di crescita del personaggio, che abbiamo trasformato in tecniche di storytelling ma che è in realtà un’onda invisibile di significato che si muove nell’uomo a livello biologico, ci chiede di uscire dalla stasi, di essere rapiti, di sospendere il giudizio e di tornare a casa (la nostra identità) ma con oggetti preziosi in più, le parole che ci legano ad altri. Di tutti i racconti che Buonaiuto ci ha condiviso mi ha colpito Sciopero dei professori di Guareschi, che parla dell’apparente incomunicabilità tra un professore e uno studente, Campora, due personaggi che utilizzano paradigmi di lettura del mondo completamente diversi, solo che uno ne usa uno convenzionale l’altro no. Sono rapita ogni volta che incontro un Campora, che ha l’arte di scarnificare e semplificare totalmente la realtà, che si esprime come un mistico del quotidiano, mentre io, come il professore, rischio di costruire religioni, cioè storie/griglie che tentano di razionalizzare la realtà. Mi è venuta anche in mente la professoressa Giovanna del film Ovosodo, che si perde davanti al mistero di Tommaso, rapita anche lei dall’ineffabile rappresentato dal giovane amorale artista, ribelle. La tensione è un po’ quella dell’Anima e il Briccone di Jung. Anche se Tommaso e Campora hanno temperamenti completamente diversi, immaginiamo anche Giovanna, come il professore di Guareschi, folgorata dal proiettile di una riflessione “Non lo so e invece lo dovrei sapere. Non so interpretare nonostante tutto il mio studiare la vita”.
L’impossibilità di addomesticare il mistero sposta questi personaggi da se stessi per avvicinarli all’altro e puntare ad allargare il pieno con il vuoto. Poche parole davanti alla natura svelano un mondo ancora inesplorato, aprono un confine. Attraverso quella ferita comune (l’ammissione di vulnerabilità di Campora e la caduta del professore dall’illusione di poter sapere tutto) si sconfina nell’altro, nella compassione, nella sua accezione di sentire l’emozione altrui. Così il professore, vedendo Campora dirigersi verso una folla che sa essere per lui fonte di paura “provò un’angoscia acuta come se gli infilzassero il cuore”.

Sto leggendo La salvezza del bello di Byung-Chul Han; il filosofo coreano parla dell’unione in questa epoca di sacro e profano, attraverso la bellezza. Anche i testi sacri, che ci affanniamo a dissacrare, forse perché sono stati svuotati della loro forza attraverso interpretazioni e razionalizzazioni degne dei peggiori professori, vanno secondo lui recuperati attraverso una lettura (che definirei anagogica) che diventa avventura erotica. Attraverso la tecnica del velamento la Torah (ma potremmo dirlo per la Bibbia o il Corano) è insieme manifesta e nascosta e attraverso un sottile velo di parole allegoriche narra al suo amato “di tutti i suoi misteri nascosti e di tutte le sue vie segrete che sono nel suo cuore dall’inizio dei tempi”. Le migliori storie fanno questo.