Recitare il proprio ruolo con consapevolezza: la metafora della “casa senza padrone” di Gurdjieff nella quotidianità

Di Camilla Sguazzotti. 

La campanella suona mentre sono ancora a metà della terza rampa, alzo a fatica la spalla per rimettere lo zaino in posizione e tengo lo spallaccio con entrambe le mani. La presa è debole e la pelle assottigliata dal freddo, sul bavero del cappotto un’irregolare striscia color ruggine mi ricorda che avrei dovuto mettere un cerotto sull’indice tagliato: sono sempre in ritardo, i cerotti sono sempre sul fondo della scatola, e la scatola sul fondo dell’armadietto. Una posizione incompatibile con quella delle lancette, una negligenza del Buon Senso distratto.

Ho gli occhiali appannati e dei volti che mi salutano non vedo nulla, rispondo automaticamente alle voci, tanti «buongiorno» di tono e intensità decrescente al crescere dei gradini.

Comincio a chiedermi se non ho sbagliato edificio, forse sarei dovuta andare in quello accanto, oppure è la città a essere sbagliata: il treno che avrei dovuto prendere era sul secondo binario e non sul primo? Provo con Calma ad analizzare la situazione, ma è distratta dal brusio circostante; il diaframma si contrae, gli occhi si dilatano, e cerco un appoggio per non scivolare: “perché non mi aiuti?”. Non risponde, continua a fissare fuori rapita.

Arranco sulle scale, i respiri si fanno brevi, devo ricordarmi di aprire le narici o vado in apnea. La salita finisce e il pavimento piano del corridoio mi restituisce stabilità, oscillo per il peso dei libri e cerco di non urtare le macchie che mi passano accanto: gli occhiali non si spannano e a strofinarli sulla sciarpa ottengo solo un cambio di sfocatura, da annebbiato ad annacquato.

Mi sento annacquata anche io, confusa e ondeggiante come uno stagno colpito da un sasso, mi sento instabile, disordinata, fuori posto; eppure su quel treno un posto l’ho trovato, nel posto da cui partiva, alla stazione, ci sono arrivata io, l’ho deciso io.

Stringo gli occhi a spillo per leggere il numero accanto alla porta, deve essere un 201, non 202 o 200, proprio 201, una stanza non vale l’altra oggi, non posso permettermi di occuparne una qualsiasi: devo stare esattamente in quella che mi è stata assegnata. Una donna con i capelli corti e grigi che non conosco, e il cui sguardo non invoglia la conoscenza, sembra attendermi impaziente; mi fa segno di entrare con il braccio teso e la mano aperta a mostrarmi il palmo roseo. Annuisco, come se quel movimento del capo garantisse la mia autorevolezza e presenza; la donna ritira il braccio lungo il fianco e sparisce alle mie spalle.

Restiamo io, la porta di alluminio ammaccato dell’aula 201 e il diaframma che va su e giù più veloce di quanto io riesca a contare; sento le orecchie calde fischiare e i suoni diventare sempre più ovattati, stringo forte le palpebre e quando le riapro è tutto fuori fuoco. Sento brusio tra le mie stanze, emozioni agitate che si muovono senza sapere che incarico rivestire: stallieri in livrea, giardinieri in grembiule da cuoco, domestiche improvvisate peinteusesœ; tutti con abiti imprestati da altri.

Pochi stretti passi e la mia voce riempie la stanza: io esco fuori, mi sento scivolare sulle piastrelle, resto appoggiata al muro e guardo, mi guardo. Osservo me stessa coperta a mia volta di un abito avuto in prestito: la taglia troppo stretta, i colori inadatti all’incarnato, i bottoni troppo appariscenti che pendono dalla giacca. Non c’è nulla di sbagliato nella mia funzione, ma sono come una villa signorile lasciata all’incuria di una servitù inadempiente e disorganizzata: nel salone da ballo del mio pensiero domestiche, cuoche, giardinieri, stallieri e garzoni corrono da una parte all’altra senza direttive. Sono uscita da me, non c’è nessuno a guidarne le mansioni, tanti sono confusi, la maggior parte abbandonati all’inerzia, molli e svogliati sul mobilio coperto di teli. La mia casa è piena di tutto quello che dovrebbe esserci, ma vuota di senso; un caotico contenitore di emozioni e azioni finalizzati ad alcuno scopo.

Mi sento parlare, con tono poco deciso mi lascio scappare che non sono dove vorrei, che quello è il modo peggiore per cominciare qualcosa che non ti senti bene addosso, che a essere sbagliati sono loro, quelli che dovrò chiamare “i miei studenti”. La me fuori di me resta paralizzata, loro impermeabili, ma hanno sentito, e nessuno ha apprezzato; non avrei dovuto dirlo, perché l’ho fatto? Il tempo scorre lentissimo, la seconda campanella suona ed è l’unica voce che riconoscono come autorevole: si siedono, mi guardano, la polvere del gesso nell’aria resta sospesa e mi circonda come in una scena passata alla moviola; resto sospesa anche io, mi guardo fissa negli occhi e osservo i miei servitori. Rabbia ha il tono più alto di tutti, Entusiasmo prova a tirarle una manica ma Frustrazione fomenta Stizza e Superbia che sembrano voler rivoluzionare la disposizione delle stanze; Ragione e Calma sono in un angolo, intente a mettere ordine tra le carte del Buon Senso che, noncurante dell’anarchia nella casa, si è improvvisato veggente e si diletta a disegnare carte astrali per guidare il futuro. Ma quale futuro? Quale “dopo” dovrei seguire se prima non oltrepasso il “qui”; qui, adesso. Io sono qui adesso, non proiettata avanti, non sono reazione automatica e impensata all’insubordinazione delle mie persone: sono azione nel presente, sono io, tutti i miei io ben coordinati e al loro posto che agiscono all’occorrenza, non a sproposito, non quando non compete loro, solo quando è bene che escano dalla loro stanza, prendano parola e svolgano il loro compito.

Quel vestito mal messo non è quello che ho tirato fuori dall’armadio questa mattina, so di aver dato diritto di prelazione sulle mie azioni alla parte giusta, o quanto meno quella più adeguata; quando mi sono lasciata senza supervisione? Mi sono messa a rincorrere paure nemmeno germogliate restando sguarnita di suggeritore, io teatrante senza copione alla sua prima esibizione, priva persino dei consigli del capocomico. La mia casa è un teatrino anarchico e la mia scena un palco occupato da un attore muto, sembra che nessuna parte di me sappia come agire, ma io, io che occupo la posizione al centro e in questo momento preciso osservo quel caos da fuori, so che si tratta di ritrovare consapevolezza del proprio ruolo, direzione ed equilibrio.

Fisso tutte le mie emozioni correre, urlare e muoversi scompostamente dalle finestre dei miei occhi; resto in silenzio seduta in platea, in fondo in prima fila, in attesa che ciascun componente della compagnia sia pronto alla sua parte e il capocomico torni a indicarmi il posto da occupare sul palco, le battute da ripetere e la postura da tenere:  consapevole e convinta che spente le luci tornerò al centro, ma per quella mise en scene dovrò essere un’altra, una delle “mie” altre. 

Il mio sguardo attento e non giudicante prende tutto lo spazio, si fa presenza scomoda, segue ogni servitore nella sua domestica ribellione, soffoca lo slancio, placa il disordine. L’edera lascia le pareti, i mobili si scoprono dai teli, la polvere di gesso cade a terra e viene subito spazzata via, chiudo gli occhi, e sono di nuovo una sola me: la professoressa, un ruolo che ho scelto di recitare, un vestito che è solo in parte mio e appenderò alla gruccia una volta rincasata; un copione che metto in scena adesso, azioni che compio qui, ora, nel presente e nella presenza.

Poggio lo zaino accanto alla cattedra, dico il primo «ragazzi!!» dell’anno, e interpreto il mio personaggio davanti a ventitré sguardi attenti.  

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