Di Daniela Mangini.
C’è sempre una mela avvelenata sull’albero della conoscenza.
Siamo biologicamente assillati dall’idea di conoscere il futuro. È il nostro peccato originale, l’impulso a non lasciare tempo al tempo e a ingoiare spicchio per spicchio l’illusione di controllare la nostra vita e quella dell’intero creato.
Come ha spiegato Stefano Calabrese, durante la sua formazione C’è una volta, il cervello non è fatto per vedere ciò che c’è adesso ma per prevedere ciò che sarà. È la nostra forza e il nostro handicap, la nostra magia bianca e magia nera. Prevedere è la nostra virtù e il nostro vizio. D’altronde il cervello dipende dalla sensazione di piacere, come spiegano le neuroscienze, e il piacere (nel suo aspetto endocrino) è la benzina per attivare un organo altrimenti dormiente. Quanto ci sentiamo bene quando possiamo dire a qualcuno: te l’avevo detto! Ogni volta che il cervello vede confermata un’aspettativa prova una potente scarica di piacere (e l’autostima festeggia). Giochiamo a fare i veggenti ed è, in effetti, un gioco divertente, che ci dà vitalità. Dobbiamo però stare attenti alla ludopatia, soprattutto quando cerchiamo di giocare in maniera sleale e, un po’ presi da hybris, creiamo un’idea di predittività su larga scala, che compete con le leggi naturali e l’invisibile. Bariamo perché, in una sindrome d’infantilismo e onnipotenza narcisistica, ci illudiamo di costruire cervelli onnipotenti che tutto sanno di ciò che è e di ciò che sarà.
Dipingere con il cervello le alternative alla realtà è un atto creativo che, oltre ad essere particolarmente piacevole, dà potere: per ridurre il carico cognitivo, le persone si affidano a chi tutto sa di ciò che è e di ciò che sarà, e così si creano comunità (di ogni tipo), di solito molto poco propense a dubitare che chi seguono sia convinto di sapere o finga di sapere, fino a quando si accorgerà che la realtà non si può predire fino in fondo, si può osservare e farsene una ragione. Dal micro al macro passiamo dal potere del ragazzino o della ragazzina popolare della classe che detta legge sullo stile dei coetanei, alla capacità di condizionare il loop presente/futuro degli algoritmi e dell’enorme macchina predittiva che condizionerà sempre di più la nostra vita.
Sto leggendo il libro Gli algoritmi predittivi e l’illusione del controllo di Helga Nowotny (presidente dell’ERC, il Consiglio europeo della ricerca) che tratta proprio il tema dei rischi di una predittività che non ci dà scampo, che ci limita in quanto esseri umani attraverso il paradosso della previsione. Se il comportamento umano flessibile e adattivo, spiega Nowotny, inizia a conformarsi alle previsioni, si rischia di fare ritorno a un mondo deterministico, in cui il futuro è già stato deciso. Il paradosso è sospeso nell’intreccio tra il presente e il futuro: le previsioni riguardano sì il futuro (cioè qualcosa che ancora non esiste e che stiamo tessendo), ma agiscono direttamente su come ci comportiamo nel presente. Bramiamo di conoscere il futuro, ma ignoriamo in gran parte ciò che le previsioni fanno a noi. Paul Watzlawick metteva la profezia che si autoavvera tra le regole del suo Manuale per rendersi infelice. In un sistema in cui c’è un’idea d’intelligenza superiore su quella del singolo quell’intelligenza può diventare strumento di auto-addomesticamento dell’individuo spinto da agenti normativi (ieri i rappresentanti umani e portatori di dogmi di esseri invisibili e misteriosi, domani gli stessi esseri invisibili e misteriosi che, grazie al machine learning, potrebbero rinunciare alla mediazione umana per creare e imporre nuovi dogmi) orientati, nelle intenzioni e dichiarazioni, alla valorizzazione e al miglioramento dell’essere umano.
Tornando a Calabrese, la mappa predittiva preferita dalla nostra goffa specie è da sempre lo schema narrativo (cronosequenziale), ma sappiamo che vista una premessa, possono nascere innumerevoli finali e soprattutto essere usati stili diversissimi: è la formula magica dell’interpretazione, un altro gioco in cui facciamo esplodere e brillare qualunque illusione di verità. Ci appassioniamo all’incongruenza per risolverla e lo possiamo fare sia eliminandola, sia rendendola meccanismo di ulteriore esplorazione e rivisitazione del congruente. La piacevolezza del nostro futuro sta, secondo me, tutta in quella scelta e possibilità di scelta. Riassumendo: abbiamo un cervello che è una macchina predittiva e l’essere umano, con quello stesso cervello che considera una macchina imperfetta rispetto a quella che sta costruendo, ha creato sistemi che imitano il cervello umano trascendendolo, operazione (quella di trascendere ciò che già c’è) solitamente attribuita dalla psicologia cognitiva alla coscienza lanterna, quella che si attiva con qualche bicchiere di troppo e che ci permette di accettare la nostra imperfezione e immaginare possibilità. Un sobrio cervellone iper-predittivo, che immagina con i dati, proietta e disegna il suo schema di futuro, rende sempre più difficile al cervello umano di errare (cioè vagabondare nella contro-fattualità), perché una società in cui tutto è prevedibile e sottoposto a leggi morali, la trasgressione creativa ha poca possibilità di esistere: il cittadino dev’essere buono e ne ha tutti gli strumenti. Sono tra quelli che, come Chandra Candiani, pensa che senza l’energia dell’errore non si procede, si resta spiaggiati. Riporto le sue parole, perché chi si occupa di poesia sa trovare bene il modo di mettere in guardia dalle gabbie di parole e numeri troppo ordinati, mentre sa far risplendere la luce del caos:
Senza l’energia dell’errore non si procede, si resta spiaggiati. È ritrovando la possibilità di errare che si riparte, ma non si può fabbricarla, occorre lasciarla arrivare, occorre togliere gli ostacoli: il confronto, il giudizio su di sé, il voler compiacere gli altri, l’ambizione mondana. Partire soli, andare errando, scoprire nuove energie grazie all’errore. (…) Non vale solo per la scrittura, ma per qualsiasi percorso senza orme da ricalcare, per qualsiasi camminare che sia senza cammino prestabilito, perché ogni passo è la meta, esitando, sostando. Una via che si disfa mentre la si percorre per lasciare ad ognuno la libertà e il rischio di fare da sé una strada.
Cito spesso Un’immenso non sapere perché mi ha insegnato molto. La lezione di Calabrese ci ha fatto capire come una storia sia una razionalizzazione dell’irrazionale. Non possiamo permetterci di vivere esclusivamente nell’irrazionalità, ma allo stesso tempo non dobbiamo crearci rigide gabbie che non ci consentono di errare e vagabondare, che ci illudono di avere il controllo sul futuro, cioè su una cosa che non esiste ma che prende tutte le forme che vogliamo far specchiare nel nostro presente. Sappiamo tutto, non sappiamo niente: è il gioco di illusione e delusione (in e de-ludere) che guida l’evoluzione. Il non sapere è la via di fuga dal cappio delle certezze. D’altra parte, entriamo e usciamo dalle librerie, entriamo e usciamo dalle storie, perché un solo presagio di finale non ci basta.
Il nostro ritorno al Paradiso si fa sempre più complicato, anche perché, secondo Calabrese, l’Eden riprende il paleolitico superiore: niente lavoro, niente violenza, piccoli gruppi di 20-30 persone nomadi, cacciatori raccoglitori. Tutto finisce con la stanzialità e la necessità di ordine e gerarchie. Qualcuno dirà: ma ora siamo nomadi digitali. Nomadi digitali con tante, troppe orme da ricalcare. Però possiamo farcela: si tratta solo di non fare indigestione di mele.