Di Daniela Mangini.
Letterale, allegorico, anagogico. Impariamo a tenere in equilibrio visibile e invisibile.
Abbiamo diversi modi per leggere un testo. Allo stesso modo abbiamo diversi modi di interpretare un’immagine, un evento, una relazione, una persona. Questo perché tutte queste cose citate rappresentano una storia, un incontro di contraddizioni tenute insieme con forza magnetica da una possibilità di risoluzione e che con la stessa forza magnetica ci attraggono a sé, perché di quella storia sentiamo in qualche modo di far parte, di essere la contraddizione risolutiva. Più è complessa la composizione e la stratificazione di quell’oggetto di osservazione e più rimane al suo centro un vuoto di significato, più ne siamo misteriosamente catturati. Perché il nostro gioco preferito è trovare un senso alle cose, girare la chiave che magicamente mette in ordine tutti i pezzi. Ma oltre all’oggetto c’è un soggetto, con le sue caratteristiche di lettura.
Armando Buonaiuto ci ha ricordato nella sua lezione tre modalità di lettura di un testo: letterale, allegorico, anagogico. Una comprensione letterale vede quello che viene detto, né più, né meno. Semplice. Le frasi descrivono una scena, il quadro rappresenta un evento o un paesaggio, un amico ci descrive un’esperienza. È il modo più riposante di affrontare le storie, perché affidarsi a quello che è evidente non ci costringe a metterci in dubbio: i paletti sono visibili, i confini chiari, nessuna ambiguità. Questo è il fascino della semplicità, che ha però in sé il rischio della semplificazione. Ancor peggio ha a volte il pericolo del delirio.
Come racconta John Perceval nel memoriale del suo internamento tra il 1830 e il 1832 (poi pubblicato da Gregory Bateson con il titolo Perceval’s Narrative) la sua follia era proprio il letteralismo “Lo spirito parla poeticamente – scrive Perceval” ma il matto prende il senso letterale”. Discorsi (che Perceval chiama dello spirito quando ci arrivano in immagini dentro di noi) poetici o umoristici diventano pericolosi quando vengono sentiti come verità, ingiunzione, missione, profezia, attraverso un irrigidimento del pensiero che porta all’irrigidimento delle relazioni. Prendere per istruzione letterale una metafora può provocare grande sgomento. Ricordo quando da inesperta madre ero stata ripresa da una maestra perché mio figlio un giorno le aveva detto, riferendosi probabilmente a una potenziale strigliata, “se lo viene a sapere mia madre mi uccide”. Mi sono sempre chiesta se fosse la maestra ad avere problemi di letteralismo, se fosse mio figlio ad avere un’immaginazione drammatica, o se fossi io ad aver dimenticato di sorridere mentre facevo una battuta. Ma quando da bambina mi dicevano “ti mangio il naso” e facevano spuntare il loro pollice tra l’indice e il medio per essere convincenti, io potrei avere subito un trauma? Però bisogna ammetterlo, storicamente qualche problemino nell’interpretazione dei testi sacri potrebbe esserci stata. Per questo troviamo continuamente spiegazione sui significati simbolici di questo o quell’emblema, di quella parabola o di quella particolare festa, con un inanellamento di tradizioni che ci portano dalla psicologia dell’inconscio fino agli scaffali del supermercato: la sorpresa nell’uovo di Pasqua è il nostro ritrovato bisogno di rigenerarci, che sia attraverso l’immagine dell’uscita da un sepolcro (caverna) o sia per dischiusone dell’uovo cosmico.
E infatti viviamo anche di letture simboliche, più precisamente di letture allegoriche, che è quella che tiene insieme il legame tra noi e l’autore. C’è in questo livello di lettura, generalmente accessibile a chi ha già delle nozioni, il divertimento della caccia al tesoro. Henry Jenkins, in Convergence Culture, spiega molto bene come questo gioco collettivo abbia trasformato la società dell’informazione e dell’intrattenimento in un meccanismo in cui i simboli e i loro significati non sono più profusi da gruppi elitari, come una pioggia di verità, ma sono oggetti di ricerca e a volte manomissione (una specie di hacking o cracking) da parte dei destinatari. La saga di Star Wars, dopo il primo seme piantato da autori molto capaci, è poi cresciuta sul co-autoraggio dei fans che in ogni dettaglio inserivano o leggevano simboli e elementi morali. In altri prodotti si è addirittura giocato a smascherare la costruzione del gioco narrativo in anticipo, facendo crollare l’architettura dei simboli, che è quella cui si appoggia il soft power di chi crea narrazioni. Si è creata attraverso i media d’intrattenimento una religione pop (con i suoi seguaci, i suoi santi influencer, i suoi templi spesso commerciali) che come ogni religione cerca di insegnare pratiche di sviluppo personale e convivenza comunitaria, non sempre riuscendoci, proprio perché, cercando di dare un ordine (anche morale) in cui rifugiare razionalmente le sensazioni e le emozioni, qualcuno viene escluso, c’è un dentro e un fuori da quell’ordine. Chi, ad esempio, non è istruito sui possibili significati metaforici, spesso legati a eventi storici e saperi ermetici, è escluso e rischia di essere guidato dall’esterno, da falsi mentori. Metaforizzare, dare spazio al simbolo è anche però un modo di far trascendere in oggetti conosciuti, che hanno una loro forma riconoscibile, oggetti sconosciuti, come sensazioni e pulsioni. Riuscire a dargli una forma ci evita l’acting out, cioè l’agire fuori dal controllo quando non individuiamo quel rassicurante ponte, che è al tempo stesso unione e distanza, data dal pensiero metaforico.
Arriviamo poi alla lettura anagogica, la più affascinante e complicata da capire, perché riguarda la ricerca di ciò che si rivela, ma ancora non è rivelato. Buonaiuto, che ricordo essere curatore del Festival Torino Spiritualità, ci ha parlato della capacità di leggere dietro ai fatti narrati lo spirituale, del passaggio dal fisico al divino, cioè a ciò che ci trascende come esseri fisici, che ci mette in connessione con altri esseri viventi ma anche con ciò che non è visibile. Io tendo a pensare al divino come ordine poetico, cioè non fisso, rigido, come quello letterale, né legato a nozioni e storicità come quello simbolico. È un equilibrio tanto incerto quanto divertente, perché pieno di meraviglie e rivelazioni. Sempre Perceval, che amava spiegare il divino, scriveva che il peccato originale altro non è che prendere i comandi di uno spirito di umorismo pervertendoli in verità, in illuminazione, in uno stato di conoscenza. Ci illudiamo di raggiungere la conoscenza a volte non concedendo esistenza a ciò che c’è fra le righe, a volte con l’illusione di poter trascendere ciò che ha una forma (come le parole) per astrarci fino all’idea. Un’idea che ci può portare a perdere, noi stessi o gli altri. Mi viene in mente, parlando degli strati dei personaggi (e dunque delle persone) la finestra di Joari, che ci dice che c’è una parte di noi che noi conosciamo e che gli altri conoscono (forse è la parte che possiamo leggere in maniera letterale), una parte che noi conosciamo e che gli altri non conoscono, poi una parte che gli altri conoscono di noi e noi non conosciamo e infine una parte cieca, che né noi né gli altri conoscono, un mistero in cui evidentemente è affascinante quanto pericoloso inoltrarsi. Dobbiamo chiederci, quando facciamo queste esplorazioni nelle persone che non vogliono essere libri aperti, quando ci immergiamo nel mistero, se rispondiamo a spinte divine o diaboliche. Dare significati a tutti i costi, attentare a quello spazio di non senso, cercare di riempire quel piccolo buco nero che tiene in movimento l’essere umano è crudele, depotenziante, sadico. La lettura anagogica se capta il mistero deve prendersi la responsabilità di non svelarlo. Sentire la presenza di qualcosa che va oltre alla banalità di ciò che è già svelato (l’allegoria del velo come protezione è una bel simbolo fino a quando non incide letteralmente sulla realtà) è forse quello che ci fa sentire più vivi. Bisogna però essere discreti, in parte furbi. Un fiore non si chiede perché sboccia, un artista è la sua opera, ma non la sa spiegare; se incontri un angelo, dice Buonaiuto, loda ciò che è semplice, parla di quello che vedi “Siamo qui per dire alle cose come sono nel loro intimo. E le cose non se lo immaginano neanche di essere così”. Perché allora dovremmo usare quella lettura? Perché dovremmo impegnarci in qualche rivelazione? Prima di tutto perché è spesso istintiva e non si può rinunciare ad accoglierla. E poi un fiore può anche non farsi problemi, ma se sapesse come trovare l’acqua per bagnarsi potrebbe non dipendere dai capricci della natura o dalla cura dell’uomo. L’umanità nel suo insieme ha questa grande opportunità di saper tenere in tensione queste tre letture della realtà: si tratta, forse, solo di comprenderne i vantaggi e i rischi e di usarle insieme come chiave per non svelare troppa realtà. Sapersi pensare, sapersi descrivere, viversi come una storia è un soft power di cui far buon uso.
Dietro a una minuzia c’è lo straordinario. Il concetto di anagogia ci porta a vedere in un oggetto qualcosa che lo trascende. A volte, quando osserviamo qualcosa o qualcuno, percepiamo ciò che va al di là di un’interpretazione letterale, qualcosa che crea un ponte tra il concreto e l’astratto, tra la materia e l’idea; una sensazione di realtà aumentata che ci cattura e ci affascina. Riuscire a spostarsi da un’interpretazione letterale ad una che legge tra le righe è a volte pericoloso, perché ci può sradicare dalla realtà visibile e dai confini che ci consentono di convivere con gli altri, ma, va detto, ci allontana anche dal rischio di meschinità, di irrigidimento. Riuscire ad attraversare avanti e indietro il ponte tra concretezza ed astrazione vuol dire andare avanti e indietro tra noi stessi e ciò che ci trascende, cioè la difficoltà di essere semplici.