Narrare del corpo attraverso il corpo.
Di Camilla Sguazzotti.
Scriviamo sempre con il corpo. Non con la singola mano che impugna la penna o batte sui tasti di un computer: è ogni parte a contatto con il mondo che prende parola e lascia qualcosa di sé sulla pagina.
La quotidianità è fatta di gesti ripetuti, movimenti fatti per inerzia e abitudini che si reiterano per comodità. Ma in questa comodità in cui tutto ha già un nome e una collocazione, dove ogni visione si esaurisce in una metafora già nota di aggettivi consunti e immagini standardizzate, che cosa resta di quel che viviamo?
Urge cambiare posizione, dare voce alle parti inascoltate e nascoste del corpo e scoprirne il linguaggio.
Ogni nuova scrittura nasce da un cambiamento del punto di osservazione e dall’oblio della consapevolezza del gesto. Non si tratta di anarchia quanto di cessione del controllo: se si ascolta il corpo, se ci si immerge nel suo modo di leggere e interpretare le sensazioni, si assume una consapevolezza inedita, aliena e vergine. Un lessico nuovo, immagini che arrivano direttamente dalle sensazioni senza subire il filtro della nostra decodificazione fatta di influssi culturali e letture che ci regimentano.
Si allenta la corda del già detto e nasce la poesia, la prima e più naturale forma di narrazione che nasce con e per la voce, sorella stretta del canto, il primo strumento con cui si sono raccontate storie.
L’idea che la poesia che troviamo tra gli scaffali di una libreria sia frutto di un impeto creativo improvviso va sfatata: l’idea dell’ispirazione poetica come dono o effetto di un intervento soprannaturale non convinceva già ai tempi di Esiodo, e oggi l’esperienza della quotidianità vanifica i tentativi di mostrare una spontaneità di fatto costruita e ricercata.
La poesia è scrittura e riscrittura, come ogni manufatto; lavorio attento, cesello e scarto. La poesia è un artificio, il punto di arrivo di un percorso ostico tra parole inadatte e concetti che non trovano sfogo. Ma la poesia è soprattutto urgenza, necessità, liberazione. E questa sua origine incensurata e primordia va scandagliata alla ricerca di lessico nuovo, sensazioni pure e verità inascoltabili.
Corpo e poesia diventano canali di comunicazione a doppio senso: il corpo nutre la poesia e parla attraverso essa. È la sensazione che si può avere sfogliando la prima raccolta di Valerio Magrelli che già dal titolo, Ora serrata retinae, rimanda alla carnalità del corpo presentato in veste anatomica: l’ora serrata è il bordo frastagliato che precede la retina, mentre rima palpebralis e aequator lentis, le due sezioni dell’opera, sono i nomi latini per la linea della palpebra e per il cristallino. Una poesia che è essa stessa sguardo dall’interno verso l’esterno e viceversa, un tentativo continuo di superare gli ostacoli di una vista resa difettosa dalla miopia e dalla necessità di fare affidamento su un linguaggio che non la rispecchia.
Il corpo in Magrelli trova spazio in ogni raccolta prendendo parola a partire dall’accezione meno aulica che la lingua riesce dargli, quella della medicina e della precisione chirurgica. Ecco che allora la vista, quasi come lascito del concetto di occhio-finestra stilnovista, ha il privilegio di godere di un canale di contatto con il mondo, di legare a filo diretto visione e pensiero, mentre il corpo è come intrappolato e ammutolito:
Il corpo è chiuso come una muraglia,
è come un pozzo immerso nella carne
che non giunge ad avere
impressione di sé.
E le sue membra stanno
mute e cieco e fermo
nella gamba riposa il ginocchio.
Ma nella testa s’apre
l’alba del mondo:
l’osso si allarga, accoglie
dentro di sé lo sguardo.
Dolcemente si compie
il paziente travaso del vedere,
acquedotto di chiarore, strada
che porta l’essere a se stesso.
E nella radura della fronte
il portale del ciglio ha la sua luce.
da RIMA PALPEBRALIS (Ora serrata retinae, 1980)
La scrittura cerca quindi di affrancarsi dalla gabbia del linguaggio, uscire fuori dal tracciato delle descrizioni già fatte, delle sensazioni già espresse per aprire alla plasticità e complessità della vita corporea nascosta, un varco sul visibile.
La costruzione di un’impalcatura che aiuti il corpo a dare forma solida al pensiero è un atto faticoso; una vera operazione di muratura, uno spostamento e assemblaggio di mattoni e calce che permettano al sentire corporeo di raggiungere un ordine e una comunicabilità:
In questo cantiere
ancora non distinguo
le mura incerte dall’impalcatura.
Non capisco dove termini
il meccanismo della costruzione,
dove ne inizi il corpo.
Nella polvere e nel legname,
fra le grida dei carpentieri,
non arrivo a separare
l’oggetto dal progetto
dal calcolo il prodotto.
da AEQUATOR LENTIS (Ora serrata retinae, 1980)
È un’azione meticolosa e paziente, richiede ascolto, fiducia e paga lo scotto della lentezza; il corpo diventa infatti strumento di scrittura e lettura su cui si possono osservare i segni del cambiare delle stagioni, valutare il loro scorrere, percepire il “come si è ora”: «Soltanto il tempo veramente scrive / usando come penna il nostro corpo». Ma la sua funzione strumentale non è passiva; il corpo si serve della pagina e del gesto della scrittura per disfarsi della paradossale incorporeità dei termini con cui si indicano i suoi movimenti interni, le sue variazioni, i prodotti a cui da forma: «Essere matita è segreta ambizione. / Bruciare sulla carta lentamente / e nella carta restare / in altra nuova forma suscitato.»
Secrezioni, scarti, polluzioni: sono i residui con cui il corpo comunica, come loro la poesia è atto impuro, nasce dall’urgenza di riversare all’esterno sensazioni e pensieri; è ciò che finisce nello scarico della pagina.
Cosa c’è di più presente di quello che il corpo non riesce a trattenere con sé, di quello che non può e non vuole tenere imbrigliato nella gabbia della carne? Non c’è nulla di più personale, delicato e privato dello scarto, ecco perché corpo e poesia sono due parti che collaborano a un atto di intimità estrema, di affermazione e riaffermazione della voce inedita del corpo: «paragonare il più alto prodotto dell’agire umano agli escrementi è importante (per) capire che proprio la poesia ha a che fare con questa totale intimità dell’uomo con se stesso, un’intimità attraverso cui parla del mondo» (da un’intervista del 2019 a Valerio Magrelli).