Di Daniela Mangini.  

I nostri mostri possono essere i migliori alleati. Nelle parole c’è il coraggio di incarnare quello che ci angoscia e di rendercelo osservabile. Una tragica separazione, premessa a ricordarci cosa per noi è essenziale.

C’è un concetto che per molto tempo è stato accantonato, come si fa con le cose preziose ma difficili, che si lasciano in un angolo perché ancora non si è bravi a usarle e di cui oggi, invece, molti parlano: il daimon.  Oggi un concetto complesso viene semplificato come vocazione, ma per arrivare a ciò che ci rende unici nel mondo, si deve scendere a profondità a volte plumbee. Daimon, ci ha ricordato Nerella Petrini, viene da Diavolo, Debolon, colui che scinde. Pensiamo di dover essere tutti di un pezzo e invece è dalla scissione, dalla dissociazione, dal riconoscere l’esistenza dei tanti condòmini che ci coabitano, che parte una rissa e poi un più maturo dialogo. Una pluralità di personaggi si muovono tra le nostre stanze, con i loro umori, le loro propensioni, il loro grado d’intensità: un po’ come tanti dèi un po’ come personaggi di un buon romanzo o di un videogioco raffinato, questa pluralità alza la polvere del desiderio per portare la nostra storia al suo destino.

Siamo storie in carne ed ossa, che ogni tanto buttano sulle pagine l’incontenibile trama per non venirne sopraffatti. Riversiamo queste innumerevoli voci su un foglio bianco, dando un nome a sensazioni informi, mentre gli aggiustiamo il cappello, ne decidiamo il passo, gli oggetti che sfioreranno, ma soprattutto le parole e i gesti.  Così, una volta datagli una forma riconoscibile, possiamo osservarle e dominarle. C’è un diavoletto in noi che agita le nostre convinzioni e ci costringe a separarci da vecchi modi di intervenire nella realtà, interna ed esterna. Quello di trasformare le tante voci confuse in una buona armonia è un lavoro d’ispirazione e precisione in cui, per diventare bravi, dobbiamo osservare e ricordare. Osservare senza giudizio, come fa il maggiordomo della metafora di Gurdjeff, il cui semplice sguardo ricorda istintivamente a ogni servo il suo ruolo e i gesti che ne conseguono.

L’osservare sul foglio tutti i nostri pensieri e desideri cangianti, le emozioni e le sensazioni che si concatenano l’uno all’altro, in un fiume di stati mentali, può rimetterli improvvisamente a posto, ricordando che non sono loro i padroni della nostra vita. Sollevare lo sguardo su quel surplus di materiale emotivo che non riusciamo a contenere, modellarlo con la penna per scavare la forma più bella, forse quella forma a cui il daimon ci chiama, è una pratica di benessere. Scegliamo il rischio di ritrovarci dannati anche leggendo, perché quei piccoli demoni d’inchiostro potrebbero risvegliare i nostri. Ma tra le pagine chi ci può giudicare?

Quello con l’autore di un libro è un rapporto intimo tra sconosciuti, che si chiude facilmente, dopo essersi spogliati reciprocamente di qualcosa.  Attraverso le storie impariamo a mascherarci con le giuste emozioni, da indossare nelle giuste occasioni, in una recitazione consapevole che ci consente di dirigere il gioco. Mettere in scena la nostra pluralità è un’arte possibile solo dopo aver trovato “un centro di gravità permanente”, che ci ricorda come ognuno dei personaggi che interpretiamo si specchia in noi, ma non sia sufficiente a rappresentarci. L’inconsapevolezza ci porta a far entrare il personaggio al momento sbagliato, a farci essere fuori luogo e questo danneggia noi e gli altri. Farlo recitare su carta, attenti a non irrigidirne i tratti e accompagnandolo nel suo arco drammatico, ci può liberare dalla sua invadenza, così da fare spazio dentro di noi a un riposante silenzio. Ma prima bisogna accogliere quel diavolo che scombina l’ordine dei nostri pregiudizi, accettare la pulsione ad autodistruggerci per ricostruirci. Prepararci a rivoluzioni e sommosse. Senza paura, lasciandosi scappare anche una risata.

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